1) Come va in Italia il settore delle ricerche di mercato, sondaggi di opinione, ricerche sociali?
L’economia italiana si basa sulle PMI e di conseguenza i decisori delle strategie di impresa sono in effetti i titolari, i quali decidono di regola su cosa sia opportuno fare e cosa non fare confrontandosi (nel migliore dei casi) con alcuni collaboratori interni o con l’agenzia di comunicazione. Inevitabilmente questo approccio li espone a trascurare importanti opportunità (oppure a non riuscire a sfruttarle al massimo). Prive di dati primari, le aziende italiane rimangono in prevalenza orientate al prodotto piuttosto che al mercato e non sempre culturalmente mostrano la sensibilità di dover ascoltare il mercato e i suoi bisogni.
Tutto questo avviene nonostante che le associazioni di settore, ASSIRM (l’Associazione degli Istituti di Ricerca Italiani) e ESOMAR (Associazione Internazione dei ricercatori e degli istituti) siano fortemente impegnate nel valorizzare il ruolo, l’etica e la funzione sociale della Ricerca presso le istituzioni, imprese e università.
Il confronto con gli investimenti in ricerca sulle attese e i desiderata dei cittadini con le altre nazioni è impietoso. Data la scarsa propensione da parte delle PMI nazionali ad investire in ricerche, si potrebbe affermare, mutuando il titolo di un film – che l’Italia “non è un paese per ricercatori di mercato”
Anche per quanto compete la Pubblica Amministrazione, che in altre nazioni investe significativamente nella ricerca sulla pubblica opinione, in Italia (e se ne vedono gli effetti) ahimè, questo non avviene.
Persino le associazioni imprenditoriali (che potrebbero avere una grossa influenza nel promuovere la ricerca nel confronto dei propri associati) non mi sembrano troppo impegnate in questo senso.
Infine vorrei segnalare che anche il recente GDPR (il regolamento generale sulla protezione dei dati) ha inciso negativamente su questo scenario seguitando a non voler riconoscere nelle ricerche di mercato un’attività senza finalità commerciali, completamente separata, diversa e distinta dal marketing diretto.
2) La crisi economica ha toccato anche questo comparto? Quali sono i suoi punti di forza e quali i punti di debolezza?
A mio parere, osservando il fronte dell’offerta, il comparto delle ricerche di mercato assomiglia sempre più al mondo dei pesci dove il pesce grande mangia quello più piccolo al fine di crescere ulteriormente. La logica sembra quella di acquisire ricercatori e clienti della struttura minore, accedere ai vantaggi dell’economia di scala e innalzare le barriere di ingresso nel mercato (talmente elevate che diventa impossibile trovare un competitor). Il risultato sul piano pratico è la perdita delle strutture che rappresentavano delle eccellenze, anche nel confronto con le altre nazioni, e la rimozione delle radici storiche e del “metodo” messo a punto su base empirica in oltre mezzo secolo di indagini sul campo dalle migliori menti del settore.
Sul fronte della domanda. non penso che la crisi economica abbia frenato il ricorso alla ricerche di mercato bensì ne ha modificato la domanda facendo lievitare la richiesta di sconti, di ricerche low cost e il “fai da te”. Purtroppo i committenti non sono sempre pienamente consapevoli di che cosa possa nascondersi, in talune situazioni, dietro l’offerta del “low cost” ultraveloce. C’è effettivamente il rischio che la riduzione dei prezzi e dei margini riconosciuti agli Istituti possa comportare un calo della qualità e dell’affidabilità dei dati raccolti e, quindi, dell’effettiva utilità della ricerca di mercato.
Mi chiedo, ad esempio, come sia possibile fornire qualità e affidabilità quando, come tutti possono constatare, in molti casi, i soggetti autoselezionati che partecipano ai cosiddetti sondaggi retribuiti vengono compensati con 62 centesimi di Euro per un’intervista on line di 35 minuti (per 8 minuti vengono compensati con 30 centesimi). Mi chiedo anche se il committente ne sia veramente consapevole? La qualità ha necessariamente un costo che passa anche attraverso gli incentivi.
Un ulteriore fattore critico, oltre al crollo dei prezzi per cui anche un focus group viene percepito come costoso, è la richiesta di accelerazione dei tempi che non consente l’effettuazione di indagini integrate complesse (qualitative e quantitative). Siamo seri, i focus group, le ricerche qualitative, le tecniche creative rimangono a tutt’oggi le più valide metodologie di indagine per indagare ed interpretare la realtà ed i suoi possibili dimensionamenti estraendo insight di valore. Eppure assistiamo alla tendenza da parte della committenza di richiedere reportistiche poco elaborate, sotto forma di slide di sintesi e magari la presentazione dei dati in modo dinamico (la forma scenografica ormai prevale sulla sostanza). Tipologie di ricerca dal ciclo di vita estremamente breve prive di valore strategico.
3) Le aziende investono nelle ricerche di mercato? Sono consapevoli che rappresentano una soluzione per ridurre il rischio prima di prendere decisioni strategiche importanti?
Come ho detto, il tessuto industriale del nostro Paese, costituito soprattutto da piccole e piccolissime imprese, fa sì che l’esigenza di fondare le decisioni strategiche sulle risultanze della ricerca di mercato non sia ancora pienamente riconosciuta, come invece accade negli altri paesi, nostri competitor sui mercati internazionali. Il problema è soprattutto di natura culturale. Del resto non sono molto diffusi, neppure a livello universitario, i corsi specifici su queste tematiche. Per cui i manager delle PMI assumono spesso decisioni importanti prescindendo dal confronto con i dati del mercato, investendo meno di quanto dovrebbero in ricerche di mercato. Ovviamente, le grandi aziende, che ne riconoscono il valore, si comportano in modo diverso.
Un ulteriore freno alla richiesta di ricerche di mercato ad hoc può essere rappresentato dalle agenzie di comunicazione che mal tollerano validazioni sul loro operato. Se la proprietà accetta il “me la canto e me la suono” senza un minimo di verifica sul ROI si assume un rischio che forse non è in grado di percepire pienamente. Ho assistito ad operazioni profonde di re-branding e lanci di nuove linee di prodotto (dal naming al pack) senza un minimo di ricorso alla ricerca. Il rischio è enorme sia per il danno alla reputazione che deriva dal fallimento dell’operazione sia per i costi affrontati per il lancio, a partire dalla messa a punto della comunicazione, fino al listing-fee richiesto dalla distribuzione per mettere a scaffale prodotti privi di appeal destinati rapidamente all’oblio.
4) Quanto il digitale / online ha modificato questo comparto? L’enorme mole di dati con cui ci si trova a lavorare, è un problema?
Le aspettative nei confronti del progresso tecnologico sono elevate, altrettanto elevato il ritmo di offerta di nuove tecnologie. Il confronto tra i fornitori di ricerca sembra dipendere da chi possiede l’ultimo ritrovato che in automatico fornisce dati, interpretazioni e soluzioni. (magari con una rappresentazione scenografica-dinamica)
È certamente vero che l’impatto delle tecnologie digitali sta trasformando profondamente il settore della ricerca di mercato. Tuttavia il problema più rilevante non è tanto l’enorme massa di dati che oggi è possibile raccogliere ed elaborare, quanto la limitatezza degli strumenti di analisi, i quali, per quanto sofisticati siano dal punto di vista matematico, informatico e statistico, non possono andare oltre certi limiti nella capacità di interpretazione dei fenomeni. La cosiddetta intelligenza artificiale (che sul piano semantico non possiede alcuna intelligenza) o gli algoritmi, per quanto sofisticati ed elaborati siano, difficilmente riusciranno a surrogare la capacità di interpretazione dei fenomeni di consumo di un bravo ricercatore di mercato “umano”.
Inevitabile la delusione nei confronti dei big data, che erano stati presentati come la panacea del ricercatore, che attraverso gli opportuni strumenti di data mining e advanced analytics, avrebbe potuto svelare tutti i segreti del mercato. Nella realtà ritengo che i big data, utili per incrementare le vendite, non abbiano il potere predittivo che gli viene attribuito. L’informazione decisiva dal punto di vista dell’innovazione strategica risiede piuttosto nei Tiny Data o negli Small Data che scaturiscono dalle indagini sul campo e quelle etnografiche costruite sull’osservazione permanente del comportamento del consumatore e nella verifica dei problemi che il consumatore incontra quotidianamente.
5) Cosa chiedono sempre più le aziende del settore dei beni di largo consumo agli istituti di ricerca?
Sicuramente cresce l’attenzione da parte di queste aziende per lo studio di quello che avviene su canali social. I social media stanno divenendo un luogo di interazione sempre più importante in quanto è proprio su tali canali che avviene un importantissimo scambio di contenuti (e quindi di informazioni) tra le aziende e la clientela. Questa massa di informazioni online deve essere analizzata ma con strumenti diversi rispetto ai semplici “contatori”. È necessario entrare nel merito dei contenuti scambiati e coglierne le “sfumature di significati” e le implicazioni. Di questo le aziende sono sempre più consapevoli.
Bisogna ricordare che in passato all’interno dell’ufficio marketing di tutte le grandi aziende impegnate nei FMCG era sovente presente la figura del ricercatore (formato in Istituti di Ricerca) che sapeva individuare le necessità d’indagine e sapeva tradurre le indicazioni dei Report in decisioni strategiche. Oggi questa figura professionale raramente si trova negli organici aziendali.
Ecco che allora la richiesta delle aziende nei confronti degli istituti si sposta verso la consulenza di marketing strategico che va al di là della mera presentazione, analisi e interpretazione dei dati raccolti.
6) Perché secondo Lei alcune aziende non investono nelle indagini di mercato? Si affidano alla tradizionale forza derivante dalla vendita e dal trade unita alla conoscenza del mercato di riferimento o vi sono altre ragioni?
Come ho già accennato, la limitata propensione ad investire dipende sia da fattori strutturali (la piccola dimensione aziendale, nettamente prevalente in Italia), che da fattori culturali, vale a dire, l’insufficiente attenzione che la formazione ha riconosciuto storicamente a questi temi. Il management aziendale delle PMI accredita volentieri la propria rete di vendita (che ha comportamenti ed obiettivi spesso diversi dall’impresa mandante), del possesso di informazioni sui trend di mercato e di una superiore conoscenza il proprio mercato (senza voler considerare che i mercati, tutti i mercati, sempre più competitivi evolvono in maniera straordinariamente veloce).
Anche il sistema universitario ha le sue responsabilità. Non sono molti i corsi di laurea che danno spazio nei corsi alla trattazione di questi temi e a formare le future leve dei ricercatori di mercato. Tengo a segnalare, tra le scarse eccezioni, il corso di laurea magistrale in marketing e ricerche di mercato dell’università di Pisa.
La diffusa non-conoscenza del proprio posizionamento sul mercato e della percezione dei valori espressi dal proprio brand stanno a significare il ritardo di molte PMI nelle applicazioni delle più elementari attività di marketing. Sinceramente la vera domanda da porre agli imprenditori delle PMI sarebbe questa: “si può realmente fare marketing e comunicazione privi di un adeguato Sistema Informativo di Marketing?”