Una breve considerazione circa la libertà di espressione e d’informazione
Tempo di elezioni, tempo di sondaggi (e anche tempo di alleanze decise più sulla base dei pronostici che delle affinità programmatiche), ma anche tempo di investimenti (business is business) decisi dalla finanza internazionale che monitorizza chi è maggiormente accreditato nei consensi. Più ci si avvicina al verdetto delle urne (il cosiddetto voto di pietra) maggiore la precisione dei sondaggi (il cosiddetto voto di paglia, quella lasciata cadere per guardare dove tira il vento) anche per il confluire dei voti di buona parte degli indecisi e degli astenuti in favore dei diversi schieramenti.
E’ cosa risaputa che molti decidono chi votare solo nell’ultima settimana e non pochi sono gli elettori che scelgono chi votare nello stesso giorno delle elezioni, addirittura nei pochi secondi trascorsi nella cabina elettorale. In altre parole nelle ultime 2 settimane prima del voto, quando la competizione diventa più serrata, i confronti tra i partiti sono al calor bianco e, magari proprio negli ultimissimi giorni, esplodono i “colpi di scena” programmati dai competitor e viene deciso il voto da una parte molto consistente dell’elettorato. Non parliamo poi dell’influenza delle campagne di disinformazione create per ingenerare confusione e deviare l’attenzione dai fatti rilevanti a loro volta sottoposti a “fact check” che dovrebbero distinguere le informazioni credibili da quelle non plausibili. Queste tecniche di astroturfing , come ad esempio dare vita a molteplici identità online e falsi gruppi di pressione per indurre l’elettore a credere che una certa posizione sia di gran lunga un’opinione comune, possono spostare le preferenze. Una quota molto importante di elettori sottoposti a questa falsata pressione mediatica, in particolare quelli che si dichiaravano propensi all’astensione e gli indecisi, può modificare in modo sostanziale il verdetto finale.
Purtroppo, in maniera anacronistica rispetto a quanto avviene in larga parte del mondo occidentale, nel nostro paese vige il divieto di diffusione dei sondaggi politici ed elettorali nei quindici giorni precedenti la data della votazione e fino alla chiusura delle operazioni di voto. Si tratta di un’anomalia tutta italiana di cui poco si parla alla quale nessuno (nessuno, proprio nessuno, visto che a quest’andazzo non vi è opposizione), vuole porre rimedio e che colloca l’Italia, nella diffusione dei sondaggi, ultima nella graduatoria della libertà di espressione e di informazione. Siamo chiari, nelle ultime 2 settimane prima del voto i sondaggi di opinione in Italia non sono vietati.
Ne è vietata la diffusione, ma non certo l’esecuzione, che invece raggiunge in questo periodo la massima intensità. Si testa persino l’effetto di una singola frase sui potenziali elettori (che comunque tendono ad ascoltare sempre di meno) per mobilitarli al voto.
A questo punto gli elettori vengono ripartiti in 2 categorie: quelli che sanno (pochi, ovvio, quelli che contano) e che si fanno continuamente informare sul probabile esito per reindirizzare le loro strategie, e quelli che, la quasi totalità degli elettori, invece durante il black out elettorale non sono autorizzati a conoscere l’evoluzione delle intenzioni di voto.
Ad esempio, ci sono sondaggi commissionati da istituzioni finanziarie, per le quali un budget di qualche decina di migliaia di Euro in un sondaggio per investigare in profondità gli umori degli elettori nelle 2 settimane precedenti al voto, rappresenta un’inezia trascurabile davanti alla prospettiva di profitti stratosferici. Ne fanno fede i movimenti di borsa al rialzo nella settimana precedente e la picchiata verso il basso la mattina dopo lo spoglio. Anticipando il vero esito del voto, nei giorni precedenti qualcuno ha venduto azioni e valute allo scoperto quando il loro valore si era spinto in alto, riacquistando al momento della caduta dei titoli e realizzando una comoda plusvalenza.
Sorge un quesito. Potrebbe essere la diffusione dei sondaggi un indice del livello di democrazia e della libertà di informazione di un paese?
Vediamo allora cosa succede nelle altre nazioni con i regimi più diversi.
In Germania, Austria, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia e Francia i sondaggi pre-elettorali possono essere diffusi sempre e comunque. Così come negli USA, Australia, Regno Unito – of course – e Sud Africa.
In Francia, in passato, il divieto di pubblicazione dei sondaggi era di 7 giorni ma con la rivolta dei giornali che iniziarono, nonostante le sanzioni, a pubblicare i sondaggi pre-elettorali, LA SUPREMA CORTE STABILÌ CHE LA NORMATIVA VIOLAVA L’ARTICOLO 10 DELLA EUROPEAN CONVENTION OF HUMAN RIGHTS e in particolare il diritto dell’elettorato di ricevere e comunicare informazioni.
Il divieto di 15 giorni alla diffusione dei sondaggi prima delle elezioni – ritenuta severa e anacronistica – ci vede a pari merito con l’Argentina e la Bulgaria. Molto meglio di noi l’Albania e la Russia (3-5 giorni) oltre alla Repubblica Ceca e il Montenegro (1 settimana).
Diciamo pudicamente che questa normativa sul silenzio pre-elettorale – magari ispirata alla famosa frase del Marchese del Grillo: “io sono io, e voi non siete un …” – potrebbe essere funzionale per alcuni, per quelli che “contano”.
Nelle grandi democrazie anglosassoni il divieto di diffusione dei sondaggi non può esistere perché contrarie alla libertà di espressione. Ma, qui da noi, dove molto viene deciso “aumma aumma”in camera caritatis, visto che scarsa è l’opposizione, probabilmente è più comodo negare questo diritto.
Anyway, the show must go on.