Vorrei acquistare un prodotto, possibilmente di marca
Si possono ancora osservare nel centro di Vienna le vestigia della vecchia città romana.
È facile notare che i mattoni della struttura provenivano da una fornace che garantiva i propri prodotti esattamente come viene fatto oggigiorno: sui mattoni è infatti impresso un marchio del produttore a garanzia di qualità e provenienza.
Un vero e proprio branding del prodotto come si direbbe oggigiorno.
Comunque non erano solo i mattoni ad essere brandizzati ma tanti altri prodotti a partire dalle anfore ai gioielli così come il garum, il condimento a base di pesce fermentato a cui persino i romani che si trovavano negli avamposti dell’impero non rinunciavano.
Ovviamente, se esisteva il branding esisteva anche la contraffazione.
Ai tempi dell’impero romano i vini più pregiati erano quelli in provenienza dalla Spagna; era la forma dell’anfora che attestava la provenienza.
Così gli scavi archeologici hanno riportato alla luce nell’area di Marsiglia i resti di una fornace e di anfore di foggia spagnola (così abbiamo anche il nome del produttore/contraffattore che aveva fatto venire dalla Spagna di un artigiano del luogo).
Ma se vogliamo riflettere sulla storia del branding, dobbiamo andare molto indietro nel tempo, molto prima dell’impero romano, nella valle dell’Indo ben oltre 4.000 anni fa.
In questa valle dove è nata la civiltà non solo erano stati creati gli standard della misurazione (ad esempio il righello, che già possedeva una precisione millimetrica, ma anche altri sistemi di misurazione) ma erano stati creati anche (e questo il particolare che compete al branding) dei sigilli per identificare la proprietà degli oggetti oltre che per timbrare l’argilla posta sui beni commerciali che venivano venduti in tutta la Mesopotamia.
Questi sigilli, oggi visibili nei musei, rappresentavano degli animali (tigri, elefanti, rinoceronti, …) assimilabili per certi aspetti al marchio del coccodrillo che contraddistingue le magliette da tennis della Lacoste.
Anche a Pompei sono state trovate molteplici messaggi scritti sulle mura a mo’ di pubblicità per gare sportive, spettacoli, offerte commerciali e propaganda elettorale.
Per quel che riguarda i lupanari non solo ci sono rimaste le pubblicità con relativi prezzi e specialità ma anche le recensioni dei clienti del bordello riferite alla più abile operatrice.
Saltando a piè pari ai tempi moderni, possiamo vedere che i marchi dei prodotti commercializzati nella prima metà del secolo scorso contraddistinguevano effettivamente i prodotti migliori.
Chiunque poteva constatare che il prodotto “di marca” era sicuramente migliore della “sottomarca” o del prodotto succedaneo (come ad esempio la margarina – nata nel lontano 1869 – che pur disponendo di una micidiale pressione di marketing nei confronti del burro non è in grado di eguagliarne le caratteristiche organolettiche).
Fenomeno rimarchevole: molte marche nate negli anni ’60 – quando concepite all’interno di una strategia di marketing – sopravvivono in posizione di leadership ancora oggi.
L’investimento nella marca è stato a suo tempo il passaggio necessario da parte delle aziende proiettate nel futuro per diversificare i propri prodotti da quelli della concorrenza che, pur priva di una forte immagine di marca, ormai vantava una qualità simile se non uguale ai brand leader.
A quel punto diventava indispensabile conferire al prodotto un’identità riconoscibile, affiancando al valore funzionale quello emozionale.
Chi riusciva a comprendere il consumatore prima e meglio degli altri, creando un marchio e un portafoglio prodotti in linea con le sue attese, era destinato a vincere.
Se molte aziende continuavano a vendere solo semplici prodotti (pur buoni, performanti, economici), le aziende che avevano investito nell’immagine di marca si posizionavano sul mercato potendo garantire la qualità anche di nuovi prodotti mai prima sperimentati, attraverso la forza del proprio brand .
Per rafforzare la propria posizione di mercato i grandi marchi disponevano al proprio interno di un ufficio marketing che lavorava su dati e informazioni provenienti dagli istituti di ricerca.
Nei decenni successivi una nuova sfida alle marche arrivò dalla distribuzione.
La GDO consapevole della propria forza nel promuovere i prodotti, della sua capacità di attrazione, della presenza sul territorio, del possesso di dati statistici delle vendite riferite ai singoli acquirenti e della vicinanza con il consumatore, ha “usato” i grandi marchi come terzisti, dando vita alle “etichette private”.
Oggigiorno le private label del distributore valgono in alcune category molto più di quanto valgano i prodotti di marca, ridotti al rango di terzisti.
Questo stravolgimento operato dalla distribuzione ha interessato oltre al settore food quello dell’elettronica e della telefonia.
A riprova della forza del marketing sono nati in pochissimo tempo marchi forti, come HTC e LG, che non fanno altro che apporre il proprio nome su prodotti OEM (cioè si approvvigionano dei componenti fabbricati da un’altra società).
Ci domandiamo come sarà il futuro di un mondo ormai superaffollato dalle marche e dalle loro varianti, ognuna delle quali tenta di ammaliare il consumatore.
Probabilmente i grandi marchi, per sfuggire alla morsa della distribuzione, dovranno puntare sempre più sull’innovazione e la diversificazione di prodotti di nicchia, (stando attenti che non sia semplicemente un maquillage di prodotti già esistenti).
Nella Londra vittoriana, Carlo Marx – padre del socialismo – era affascinato dal capitalismo per il fatto che si potevano trovare in vendita oltre 500 tipi di martello, ognuno dei quali destinato ad un’applicazione ben precisa.
Ecco, in questo senso, ritengo che il futuro della marca sia la forte customizzazione di tutti i prodotti sulla base delle esigenze anche di piccoli gruppi di consumatori (se non a misura di uno solo).