Per gli aborigeni del Sud-America tutti gli esseri viventi, piante incluse, hanno un’anima, innanzitutto gli animali (parola che significa infatti esseri animati). Quando un indio yanomami muore, l’anima rimane dove la persona è morta. Gli aborigeni cacciano e consumano le carni dell’animale perché questo è parte del loro modo di vivere e di sopravvivere. Il sacrificio dell’animale ha un significato.
La nostra cultura è molto diversa; sono ormai pochi gli occidentali che ucciderebbero personalmente un animale per poi consumarne le carni. Per questo motivo, la carne arriva già porzionata e confezionata, resa irriconoscibile nella sua immagine cruente, per non riconoscerne l’origine (il wurstel in questo senso, impastando il tutto, ne rappresenta la massima espressione). Gli inglesi ci osservano con orrore quando mangiamo il coniglio, che loro considerano un animale da compagnia, quindi un membro a pieno titolo della famiglia. È proprio in Inghilterra che nel 1847 nacque la Vegetarian Society.
Oggi ci chiediamo se la scelta vegetariana sia più legata al benessere personale (la carne fa male!) o all’etica e al rispetto della vita (non è giusto sopprimere un essere vivente!); probabilmente le due diverse motivazioni convivono.
Di sicuro la scelta vegetariana oggi rappresenta un segmento di mercato importante ed in crescita perché incontra una maggiore sensibilità del consumatore alla tematica e al rispetto di tutti gli esseri viventi.
Sul fronte opposto troviamo il mercato dei carnivori.
In epoca di globalizzazione constatiamo che nel Mato Grosso (Ceara-Brasile) c’è un gigantesco mattatoio che macella quotidianamente centinaia di quintali di polli (definiti “da carne”), selezionandole le parti per le diverse destinazioni: ali e zampe in Cina, petti in Europa, cosce in Giappone, soddisfacendo le diverse domande dei diversi mercati.
Questa contrapposizione rappresenta il mercato del food, in tutti i suoi segmenti.