— C’era una volta….
— Un re! — diranno subito i miei lettori.
— No, avete sbagliato …. c’era una volta un imperatore molto vanitoso, che amava curare il suo abbigliamento al punto di spendere tutto il suo denaro per vestirsi. “Un giorno arrivarono nella capitale del suo impero due individui che dicevano di saper tessere una stoffa mai vista, con disegni e colori meravigliosi e soprattutto con un potere magico incredibile … la stoffa diventava invisibile agli occhi degli uomini che non erano all’altezza della loro carica o che erano stupidi”.
«Il re è nudo!» Sono bastate queste semplici parole di una bambina per far gridare a tutto il popolo «È nudo!» «È nudo!» L’imperatore rabbrividì perché aveva capito che avevano ragione. E così fece convocare, in forma strettamente privata, la bambina.
L’imperatore aveva capito la lezione e volle sempre vicino a se quella bambina per la sua sincerità; morendo lasciò un foglio su cui era scritto «Bisogna avere il coraggio di manifestare il proprio pensiero sempre, anche quando si rischia di fare brutte figure.»
C’era un tempo in cui la ricerca di marketing, disciplina entrata da circa 70 anni a far parte dell’armamentario dell’approccio scientifico, si muoveva con gli stessi presupposti della “conoscenza scientifica” obiettiva e logica, imparziale nell’interpretazione dei risultati e soprattutto solida nel metodo. La ricerca di marketing era nei fatti uno studio interdisciplinare che si intersecava con molte altre discipline (statistica, economia, psicologia, antropologia, etnologia…) per fornire informazioni il più possibile oggettive su di un fenomeno, in un particolare contesto, al management per prendere delle decisioni a ragion veduta.
Naturalmente le informazioni raccolte diventano ancora più interessanti quando venivano disaggregate per cluster e variabili.
Eh sì, una volta c’erano gli stili di vita, grazie ai professori Gabriele Calvi e GianPaolo Fabris che ci hanno consentito di apprezzare la loro influenza sul comportamento di acquisto del consumatore italiano.
Il concetto di stile di vita fu utilizzato nel ’29 per la prima volta in Austria dallo psicologo Alfred Adler. Successivamente, negli anni ‘60 venne utilizzato per analizzare atteggiamenti, valori, interessi e sentimenti di soggetti che potevano essere associati a dei gruppi con stili di vita simili.
Il sistema VALS (Valori e Stili di vita ) era stato creato dallo Stanford Research Institute per la necessità di spiegare i cambiamenti della società nordamericana aggregando la popolazione in gruppi il più possibile omogenei al loro interno e il più possibile distinti dagli altri gruppi. La classificazione si basava sul concetto che le persone attraversano diverse fasi evolutive, e ogni fase influenza i loro atteggiamenti, comportamenti e bisogni psicologici.
Una delle applicazioni più importanti dell’impiego dello stile di vita è stato/è nella segmentazione comportamentale di acquisto del consumatore. L’analisi dei cluster ha evidenziato come esista un’associazione significativa tra lo stile di vita dei consumatori e le marche dei prodotti da loro utilizzati. I prodotti sono infatti elementi costitutivi dello stile di vita, quindi delineare un’idea complessiva degli stili di vita, pur continuamente in evoluzione, consente di posizionare con successo i diversi prodotti. Comunque, per vari motivi di ordine metodologico, gli stili di vita andarono in soffitta mentre la clusterizzazione degli individui basata su alcune variabili o fattori continuò ad avere una sua logica nell’analisi dei dati.
Ma oggi. niente cluster o quasi, niente analisi per particolari segmenti, niente di niente se non la scomposizione per Gen. ovvero le generazioni sulle quali viene disaggregato e presentato come verità assoluta il dato raccolto.
Leggo sulle più quotate testate titoli come: “la generazione Z diventa adulta”. E poi un altro “La generazione Y si gode la vita, la Z cambia il mondo”. Ed ancora: “In che modo le marche devono adattarsi per attirare i consumatori della Gen Z e della Gen Alpha”.
Chiariamo, una “Gen.” con le lettere identificative che seguono, x, y, z, etc… è un semplice costrutto adottato dai ricercatori di marketing, creato al fine di facilitare una comprensione più rapida, migliore e immediatamente riconoscibile di un consumatore specifico, nato in un certo lasso di tempo. Sciaguratamente niente cambia nel suo incasellamento se nel frattempo è invecchiato, ha cambiato idea politica e ha perso i capelli, perché, ci dicono, demograficamente, quella fase della vita è relativamente stabile. Ma soprattutto non sembra importante se è nato in Bangladesh, in Italia, in Perù o in Brasile perché il marketing basato sulle Gen. considera la separazione generazionale come i segni dell’oroscopo. Sei nato il 23 agosto alle 23:00 bene, sei un Leone un segno di fuoco, per un pelo, si ma sei un Leone, caldo, passionale, sempre pronto a reagire. Se nascevi un’ora dopo saresti del segno della Vergine, un segno di Terra, portato alla concretezza e alla praticità…
La scomposizione per generazioni (niente di nuovo sotto il sole se vogliamo osservare l’individuo nel suo ciclo di vita) forse può avere una sua logica nel mercato statunitense, ma fare un copia ed incolla degli intervalli di tempo entro i quali appartieni alla GenY (millennials) piuttosto che alla Gen Z (centennials) in un’altra nazione con usi e costumi diversissimi è semplicemente follia (forse, ed è ancora più grave, accondiscendenza). L’idea di classificare tutta la società anzi tutte le società (siamo o non siamo nell’epoca della globalizzazione) in scatole generazionali sulla base dell’anno di nascita ha assunto un’aura scientifica, sulla quale non si può discutere.
Io, ad esempio, sono un baby boomer (1946-1964), nato cioè durante l’esplosione demografica del secondo dopoguerra (il cosidetto baby boom ) ed il mio profilo, in termini di marketing, è congelato in una scatoletta con tutti gli altri boomer.
Mentre i marketer fanno ricerche basate su questa classificazione rilevando i miei modelli di consumo, i media mi inquadrano nei loro titoli dedicati alla mia Gen nello sforzo di anticipare la mia prossima mossa, il mio prossimo acquisto o il film che adoro.
Mettere le persone in tante scatolette è allettante. Gli uomini di marketing che simpatizzano per le Gen. amano le classificazioni proprio come gli astrologi: l’idea che le personalità possano in qualche modo essere organizzate secondo il movimento dei pianeti e delle stelle è entusiasmante ed ingenua come inscatolare l’umanità secondo una serie di cliché per poter anticipare i cambiamenti culturali e sociali. E fino a quando la prossima generazione non viene battezzata ufficialmente, negli ambienti che contano, la definizione acconsentita è “Next Generation”
D’altronde se tutti ne parlano, ne dibattono, ne scrivono qualcosa di vero ci sarà, non può essere tutta fuffa antiscientifica. Tanto per capirsi sui Millennials sono disponibili su Amazon oltre 10mila libri mentre Google restituisce oltre 50milioni di risultati a riguardo. Detto questo è mai possibile che queste segmentazioni non abbiamo un fondamento scientifico e non siano una verità universale?
“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse” così sintetizzò Dante nella Divina Commedia. Infatti tutto conseguì all’uscita di in libro di successo Generations: The History of America’s Future, 1584 to 2069 di Neil Howe e William Strauss. Secondo la teoria dei due scrittori la società avanzerebbe in cicli predeterminati, che durano in media 80 anni. Ognuna di queste ere avrebbe quattro fasi, con una generazione per ogni sottoperiodo denominate con: Eroi, Artisti, Profeti e Nomadi. William Strauss e Neil Howe postulano la storia dell’America come una successione di biografie generazionali cicliche che iniziano nel 1584 e si estendono fino al 2069. Sono sempre loro ad aver creato il termine Millenial (lo stereotipo che figura in una serie di plot cinematografici ci racconta che i Millenial sono individui pigri che non pensano al matrimonio e continuano a rimanere ad oltranza in casa con i genitori – si vedano alcuni film relativi a questa generazione standardizzata).
Ma qualcuno si è chiesto chi produce queste scatole generazionali che vanno per la maggiore a livello globale? È il Pew Research Center, un centro studi statunitense con sede a Washington, un istituto che conduce sondaggi demografici, di opinione e di tendenza in tutto il mondo e che riesce ad imporre le sue classificazioni.
Il bello è che questi tagli generazionali non tengono conto di questioni di classe, genere, razza e nazione. Certamente sono efficaci nel profilare la popolazione a scopo mediatico semplificativo ma non possono riuscire a descrivere le diversità della società ne tantomeno gli atteggiamenti politici, o gli acquisti di marche e beni.
Eppure c’è chi ci informa come poter distinguere la generazione Z “nati con uno smartphone in mano” da quella Y “cresciuta in un mondo totalmente digitale”.
Come si dice a Firenze, roba da acchiappacitrulli.
Qualcuno però, nonostante la vulgata corrente e la massa di libri e giornali che si rifanno alla scomposizione dell’umanità decisa dalla Pew Research in Generazioni, sta cominciando a pensare che il re è nudo e un po’ maleodorante.
Il concetto di “generazioni” è sopravvalutato! Così titola timidamente il New Yorker, “è una categorizzazione priva di solide basi empiriche e poco utile a definire esperienze e valori condivisi.
Ma molto più pesante la critica sul metodo da parte di 170 sociologi (e le adesioni da parte della comunità scientifica continuano a crescere) che hanno inviato una lettera aperta al Pew Research Center che più o meno suona così: “Please, smettete di usare le etichette generazionali, sono caricature, stereotipi imbarazzanti”. La lettera che, per sua rilevanza, riportiamo integralmente prosegue:
“Siamo demografi e altri scienziati sociali, e scriviamo per sollecitare il Pew Research Center a smettere di usare le sue etichette di generazione (attualmente: Silent, Baby Boom, X, Millennial, Z). Apprezziamo i sondaggi di Pew e altre ricerche, e li esortiamo a portare questo lavoro in un migliore allineamento con i principi scientifici della ricerca sociale. E poi un affondo totale in 6 punti che per la loro importanza segnaliamo integralmente:
- Le “generazioni” di Pew creano confusione. I gruppi che Pew chiama Silent, Baby Boom, X, Millennial e Z sono coorti di nascita determinate dall’anno di nascita, che non sono legate alle generazioni riproduttive. C’è ulteriore confusione perché le loro lunghezze arbitrarie (18, 19, 16, 16 e 16 anni, rispettivamente) sono diminuite man mano che la differenza di età tra genitori e figli si è allungata.
- La divisione tra “generazioni” è arbitraria e non ha basi scientifiche. Ad eccezione del Baby Boom, che fu un evento demografico discreto, le altre “generazioni” sono state dichiarate e nominate ad hoc senza giustificazioni empiriche o teoriche. La ricerca di Pew mostra in modo conclusivo che la maggior parte degli americani non è in grado di identificare le “generazioni” a cui Pew afferma di appartenere. Le coorti dovrebbero essere delineate da periodi “vuoti” (come singoli anni, un numero uguale di anni o decenni) a meno che la ricerca su un particolare argomento suggerisca suddivisioni più significative.
- Dare un nome alle “generazioni” e fissare le loro date di nascita promuove la pseudoscienza, mina la comprensione pubblica e impedisce la ricerca nelle scienze sociali. I nomi di “generazione” incoraggiano ad assegnare loro un carattere distinto e quindi a imporre qualità a popolazioni diverse senza fondamento, con il risultato dell’attuale problema diffuso di stereotipi grossolani. Ciò alimenta un flusso di dibattiti circolari sul fatto che le varie “generazioni” si adattino ai loro stereotipi associati, il che non fa avanzare la comprensione da parte del pubblico.
- Le “generazioni” popolari e le loro etichette minano importanti ricerche sulla coorte e sul corso della vita. L’analisi di coorte e la prospettiva del corso di vita sono strumenti importanti per lo studio e la comunicazione delle scienze sociali. Ma la stragrande maggioranza dei sondaggi popolari e dei rapporti sulle “generazioni” utilizza dati trasversali e non è affatto una ricerca di coorte. Le categorie di coorte predeterminate impediscono anche la scoperta scientifica imponendo artificialmente categorie utilizzate nella ricerca piuttosto che incoraggiare i ricercatori a prendere decisioni ben giustificate per l’analisi e la descrizione dei dati. Non vogliamo scoraggiare il pensiero di gruppo e del corso di vita, vogliamo migliorarlo.
- Le “generazioni” sono ampiamente fraintese come categorie e identità “ufficiali” La reputazione di Pew come istituto di ricerca sociale affidabile ha contribuito ad alimentare la falsa convinzione che le definizioni e le etichette delle “generazioni” siano fatti sociali e statistiche ufficiali. Molti altri individui e organizzazioni usano le definizioni di Pew per adattarsi al paradigma, aggravando il problema e scavando più a fondo in questo buco ogni giorno che passa.
- Lo schema delle “generazioni” è diventato una parodia e dovrebbe finire.
Con l’identificazione della “Generazione Z”, Pew ha apparentemente raggiunto la fine dell’alfabeto. Continuerà per sempre, con nomi di “generazione” definiti arbitrariamente, etichettati in modo stereotipato e aggiunti in sequenza all’elenco? L’analisi demografica e sociale è troppo importante per subire un simile destino. A nessuno piace sbagliare e ammetterlo è difficile. Siamo solidali. Ma prima Pew smette di scavare questa buca, più facile sarà fuggire. Una correzione pubblica della rotta da parte di Pew invierebbe un segnale importante e aiuterebbe a guidare la ricerca e il discorso popolare sulle questioni demografiche e sociali verso una maggiore comprensione. Inoltre migliorerebbe notevolmente la reputazione di Pew nella comunità di ricerca. Esortiamo Pew a porre fine a tutto questo nel modo più garbato possibile, adesso.
Beh! Anche se non serve a niente, io l’ho segnalato. Magari, mi rivolgo alla comunità dei diversi pubblici coinvolti nella ricerca di marketing in qualità di acquirenti, fornitori e lettori, riflettiamoci sopra prima di essere classificati come appartenenti alla Gen P, P come Pirla.