Gli indios sono un popolo senza scrittura, che vive di leggende e conoscenze tramandate oralmente. I segreti delle erbe per curare le malattie sono parte di questo patrimonio oggi purtroppo ad alto rischio per l’estinzione delle lingue che lo veicolano (e lo conservano).
Tanto per capirsi: se sparisse improvvisamente il napoletano non si perderebbe la ricetta della pizza ormai condivisa in tutte le lingue del mondo, ma se venisse meno la cultura dell’utilizzo di una radice per curare una malattia, perché gli unici a riconoscerla e ad utilizzarla non hanno fatto in tempo a trasferire questo sapere ad altri, allora la catena della memoria si spezza.
La grande caccia alle piante esotiche, di cui la maggior parte sconosciute dai botanici inglesi, ebbe inizio sul finire del ‘700. In precedenza l’attenzione era stata dedicata ai prodotti agricoli edibili, di cui l’europa aveva assolutamente bisogno, a partire dalla patata, dal mais al pomodoro, al cacao, alla zucca, al peperone e al fagiolo e via dicendo.
A metà dell’800 i cacciatore di piante ornamentali, insetti ed animali portarono in europa migliaia di esemplari la maggior parte dei quali sconosciuti alla scienza che si preoccupò soprattutto dell’aspetto tassonomico piuttosto che degli effetti terapeutici (a parte quelli evidenti della coca, delle radici da cui veniva estratto il curaro e il chinino, unico rimedio, allora, alla febbre malarica.
Il curaro, estratto da un mix diverso di radici dalle diverse tribù, mi è stato riferito, esiste di due tipi. Quello che consente alla scimmia colpita di fare tre salti di ramo e quello che uccide istantaneamente al primo salto da un ramo all’altro. Ovvio che l’esploratore fosse particolarmente interessato a conoscere l’origine di questo potente veleno (oggi normalmente utilizzato nelle sale operatorie di tutto il mondo, paralizzando la muscolatura della persona operata).
“Le lingue indigene stanno morendo e la loro estinzione comporta la perdita del patrimonio di conoscenze che veicolano”, così inizia la ricerca di Rodrigo Cámara-Leret e Jordi Bascompte. La ricerca prosegue: “Le lingue indigene contengono la conoscenza che le comunità hanno delle piante circostanti e dei servizi che forniscono. L’uso delle piante in medicina è un esempio particolarmente rilevante di tali servizi ecosistemici. Qui troviamo che la maggior parte della conoscenza medicinale è linguisticamente unica, cioè conosciuta da una singola lingua, e più fortemente associata alle lingue minacciate che alle piante minacciate. Ogni lingua indigena è quindi un serbatoio unico di conoscenza medicinale, una pietra di Rosetta per svelare e conservare i contributi della natura alle persone.”
Nel solo Brasile, 190 sono le lingue indigene minacciate ed è per questo che l’UNESCO ha dichiarato il prossimo decennio “il Decennio internazionale della Lingua Indigena”.
È interessante constatare che popolazioni geograficamente molto distanti, e di lingua diversa, utilizzano la stessa pianta per curare malattie differenti, con risultati terapeutici altrettanto validi (ciò significa che il principio attivo interviene efficacemente su più patologie).
Il rischio da una parte è rappresentato dalla perdita del sapere, mentre dall’altro vi è la possibilità (direi la certezza) che questo patrimonio venga “scippato” dalle multinazionali del farmaco alle popolazioni amazzoniche come già avvenuto in passato.
Giusto sarebbe riconoscere il diritto di proprietà intellettuale ai popoli della foresta riguardo al proprio sapere farmacologico. Importante è fare presto prima di perdere irrimediabilmente per sempre, si stima, 3.600 piante medicinali e 236 lingue indigene.
Dal punto di vista del marketing i benefici nel comunicare che l’origine della conoscenza del principio attivo è legata all’esperienza millenaria del popolo delle foreste sarebbe decisamente impattante. Riflettiamo.
Comunque, a qualsiasi etnia e ramo linguistico appartieni, potrai continuare a goderti la tua pizza alla napoletana, come si conviene, condivisa da tutte le culture, fino alla fine dei tempi.