Ci sarebbe persino da dubitare che i messaggi sulle confezioni delle sigarette che mettono in guardia sui rischi per la salute, siano stati validati tramite dei copy test. Come altrimenti si spiega la crescita numerica dei fumatori in Italia e in Europa, nazioni che hanno imposto che il 65% del fronte del pacchetto debba contenere immagini scioccanti sui rischi legati al fumo e il 50% dell’ingombro dei lati riportare frasi tipo “il fumo uccide”. Secondo gli intendimenti dei redattori della normativa, la comunicazione, così come multe e divieti, avrebbe dovuto distogliere dal vizio del fumo.
Ma le statistiche raccontano una diversa realtà.
In Italia i fumatori sono infatti 11,7 milioni (22,3% della popolazione, e in continuo aumento); in un solo anno (2016-2017) le fumatrici sono cresciute di oltre 1 milione di unità, da 4,6 milioni a 5,7.
Non solo: sono proprio gli under 15 i tabagisti in forte crescita (Il 12,2%); la spiegazione è semplice: il divieto e le immagini shock servono solo ad aumentare l’interesse a violare le imposizioni e a rimuovere psicologicamente le immagini shock.
C’è stato un periodo, sfortunatamente breve, in cui il fumo era associato al degrado, al cattivo gusto e al cattivo vivere. Sarebbe stato opportuno in quel momento veicolare messaggi che potevano rafforzare un nuovo stile di vita più salutare. Invece si è optato per amplificare le patologie ed i rischi legati al fumo. Paradossalmente ha avuto il sopravvento, specie tra i giovani e le donne, fumare perché fa “cool”, perché, anche attraverso il product placement nei film, suggerisce un’ immagine di libertà, indipendenza e successo.
Provate ora a chiedervi cosa avverrebbe in un’azienda che investisse milioni e milioni di euro in una comunicazione che non sortisse alcun effetto (anche se al Ministero della Salute si ritiene che la campagna “Chi non fuma sta una favola” abbia conseguito ottimi risultati): sicuramente i responsabili della comunicazione cambierebbero il messaggio e testerebbero metodologie adeguate, non mancando di certo di testare tutta la comunicazione prima di diffonderla.
Eppure è proprio questo che sta succedendo, ma si insiste in una comunicazione a nostro avviso evidentemente errata, in larga parte basata sulle conseguenze shockanti del vizio del fumo (non solo sui pacchetti di sigarette ma anche con tutti gli altri mezzi, comprese le locandine esposte negli ospedali), che sortisce, lo dicono i numeri, l’effetto opposto a quello voluto, innalzando l’interesse verso il vizio proprio presso quei soggetti che dovrebbero essere tutelati.
Forse qualcuno dovrebbe segnalare ai responsabili ministeriali, o chi per loro, che esistono anche istituti di ricerca, indipendenti, specializzati in copy test pubblicitari, che quantomeno, con un investimento di pochi spiccioli, potrebbero individuare e suggerire messaggi e strategie di demarketing, non solo comunicazionali, probabilmente più efficaci.