L’esigenza di semplificare l’interfaccia dei prodotti ha determinato l’avvento delle icone, i nuovi geroglifici che hanno sostituito le scritte su pulsanti.
L’esigenza di semplificazione è stata accentuata inoltre dalla riduzione delle competenze linguistiche della popolazione, con un’accentuata compressione del vocabolario in uso (circa 7mila parole di uso corrente, esclusi i linguaggi settoriali gergali, in media, in contrapposizione alle 25mila utilizzate della generazione colta post-bellica comprensiva dei regionalismi ormai in via di estinzione).
Ancora poco tempo fa la lingua inglese pareva diventata universale, nel senso che tutti capivano il significato di indicazioni quali stop o start, fire, ma anche i phrasal verb tipo black out, switch off… Ormai anche queste scritte sono state rimpiazzate da simboli astratti slegati da valenze fonetiche, e quindi universali.
È stato in effetti l’avvento del mouse (che risale agli anni alla preistoria del personal computer, gli anni ’70, e più recentemente quello del tablet dall’interfaccia touch) che ha sanzionato l’avvento dell’icona come modalità di interlocuzione/comunicazione (pur anche dei sentimenti attraverso le emoticon)
Il vantaggio per i produttori è che l’applicazione delle icone consente di aggirare le barriere linguistiche, gli alfabeti e persino le direzioni di scrittura (da sinistra a destra, da destra a sinistra oppure in alternanza). La sola Unione Europea (quindi un unico mercato) annovera 24 lingue ufficiali, che si pretenderebbe mettere sullo stesso piano, oltre all’alfabeto latino il greco e il cirillico.
Naturalmente per risultare effettivamente universali un set di icone (se ne producono migliaia) deve esprimere valenze di riconoscibilità, mnemonicità, icasticità, attribuzioni etc. che la ricerca sul campo dovrebbe preliminarmente verificare, e confermare, a scanso di utilizzi impropri se non per evitare disastri commerciali (pensiamo non solo agli smartphone ma anche alle macchine industriali fino ai prodotti di largo consumo alimentare).
Non sarà il caso di lasciare ai posteri una nuova Stele di Rosetta per decifrare i nostri geroglifici?