Se i tuoi prodotti vanno alla grande quando tratti con altre aziende (che li utilizzano come ingredienti per ulteriori lavorazioni) non è scontato che lo stesso successo sul mercato consumer sia immancabile.
Ci sono aziende protagoniste del B2B che, improvvisamente, senza aver considerato le enormi differenze ed i pericoli insiti nell’offerta di mercato che si rivolge al consumatore finale, decidono di lanciare i propri prodotti anche in questo canale.
Ti voglio raccontare una breve storia.
Un’azienda leader nella commercializzazione dei propri prodotti food ad altre aziende, forte di una eccellente rete di vendita decide di proporre la sua gamma di prodotti al consumatore finale.
Nel B2B il Trade Marketing Manager ha di fronte nel ruolo di decisore d’acquisto un buyer professionale che conosce i requisiti tecnici del prodotto, ha un budget da rispettare, sa selezionare la merce, fa attenzione al costo e, ultimo punto di rilievo, esige un buon rapporto con il rappresentante al quale rivolgersi per ogni eventuale problema riguardante la merce o la fornitura.
Le cose cambiano quando invece il decisore d’acquisto è il consumatore finale che per lo più decide di comprare sollecitato da aspetti pre-razionali ed emotivi, innanzitutto sulla base del brand e dei valori attribuiti, della comunicazione, del packaging… e, ovvio, del prezzo.
Il consumatore finale davanti allo scaffale esamina tutto l’assortimento senza venir aiutato nelle sue scelte d’acquisto ed è qui, che in pochi secondi, deve decide quale sia il prodotto più aderente alle sue aspettative e bisogni.
Finalmente la nostra azienda entra ambiziosa nel mondo del B2C. Il suo prodotto, contraddistinto da un brand sconosciuto al consumatore finale, viene collocato sullo scaffale di alcune centinaia di punti vendita (pagando il relativo listing-fee), entusiasmando tutto lo staff di marketing che ha predisposto un badget importante in comunicazione per promuoverne le vendite. Passano i mesi e gli entusiasmi della prima ora si raffreddano ma nessuno lo lascia intravedere, specie al manager che ha gestito l’intera operazione. Nonostante la buona posizione sullo scaffale ed un facing di tutto rispetto sono pochi i consumatori che hanno provato la nuova referenza e molti meno quelli che la hanno riacquistata. I cospicui investimenti in comunicazione non hanno dato i risultati sperati (senza considerare l’investimento in tempo del team alla rielaborazione del prodotto e alle innumerevoli azioni promo presso i punti vendita).
Come è stato possibile un fiasco così clamoroso? Cosa non ha funzionato? E come rimediare?
La principale difficoltà, anche di un colosso nella fornitura di prodotti alle aziende, è quella di non disporre di un marchio non solo evocativo ma soprattutto conosciuto dai potenziali acquirenti (end-users), in un settore dove i concorrenti dispongono di una forte immagine di marca, un’ampia gamma di prodotti, una competenza specifica nel retail e informazioni dettagliate sul comportamento d’acquisto del consumatore.
Nel passaggio dal B2B al B2C i manager non hanno considerato adeguatamente (se non volutamente evitato) l’elemento più critico di questa avventura imprenditoriale: il cliente, incluso un rapido product-test presso la scaffalatura e alcune interviste in profondità agli addetti agli acquisti della centrale dei distributori).
Ci vuole una grande cautela nel passare dal mercato professional al mercato consumer; non solo si rischia un bagno di sangue ma il brand potrebbe venire bruciato permanentemente per altre iniziative.
C’è una morale: per avere successo nel mondo del marketing non bisogna mai fermarsi nel porre domande al target al quale si fa riferimento, anche se hai le spalle grosse.