Quotidianamente le cronache ci informano su un malessere diffuso nella popolazione e sull’aumento (qualcuno dice percezione) della micro e macrocriminalità associata all’immigrazione.
Evitando le polemiche politiche, osserviamo cosa ci raccontano gli studi sociologici più o meno recenti dei più importanti ricercatori sul campo, Paul Collier (Exodus: How Migration is Changing Our World), Ruud Koopmans (Assimilation or Multiculturalism?), Samuel Huntington (Who Are We?), oltre a George Borjas e Robert Putnam (E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century).
Quando frequentavo i corsi di sociologia alla Cesare Alfieri (ho un ricordo indelebile dell’incredibile custode, in realtà consigliere, Alfio, una brava persona che più brava non si può, sempre disponibile a dare consigli agli studenti ed ai professori) il tema immigrazione e la capacità di integrazione era già negli anni 70 all’ordine del giorno negli studi sociologici.
Cioè, vorrei dire, se non tutto, molto si sapeva e oggi si sa per certo cosa significa accogliere immigrati con tutto quello che può comportare in termini di gestione, integrazione e sicurezza.
Scrivo questo breve post per offrire una sintesi degli studi più importanti realizzati sul tema, ripeto senza preconcetti politici.
𝐐𝐮𝐚𝐧𝐭𝐚 𝐢𝐦𝐦𝐢𝐠𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀? 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐝𝐢𝐜𝐨𝐧𝐨 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐢:
Quando si parla di immigrazione, una domanda cruciale è: quanto flusso una società può assorbire senza perdere coesione?
Diversi studi indicano che superare una soglia del 10-15% di popolazione immigrata, soprattutto in tempi rapidi, può rendere l’integrazione molto più difficile. Senza adeguate politiche di sostegno (lingua, lavoro, istruzione), possono formarsi enclave separate, con il rischio di conflitti sociali e culturali.
Ma l’integrazione richiede anche tempo. Secondo tutti i ricercatori, non bastano pochi anni: per raggiungere una integrazione culturale ed economica servono in media una o due generazioni, ovvero 20-40 anni (ma la Francia è lì a dimostrare che anche i 40 anni non sono sufficienti quando i valori fondamentali sono troppo diversi).
Un altro elemento chiave è la distanza culturale: quando valori, religioni e stili di vita degli immigrati sono molto diversi da quelli della società ospitante, il percorso di integrazione diventa più complesso. Samuel Huntington, politologo, sulla base di studi sul campo universalmente accolti, afferma che:
* L’integrazione è più difficile quando vi è una profonda differenza di valori fondamentali, religione, lingua e concezioni della vita pubblica e privata,
* In particolare, immigrati provenienti da contesti culturalmente e religiosamente molto diversi tendono a integrarsi più lentamente, o a mantenere una forte separatezza identitaria anche nel lungo periodo.
Huntington sostiene inoltre che il successo dell’integrazione dipende dalla disponibilità degli immigrati ad adottare i valori centrali della società ospitante.
𝐐𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐢 𝐝𝐚𝐭𝐢 𝐞 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐢 𝐬𝐮𝐥 𝐟𝐞𝐧𝐨𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐦𝐢𝐠𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢𝐨 𝐨𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐜𝐨𝐧𝐜𝐞𝐭𝐭𝐢, 𝐯𝐨𝐥𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐨 𝐧𝐨𝐥𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐮𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐭𝐭𝐨. 𝐓𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐢𝐥 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐞̀ 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐢𝐚!