Il concetto è banale, ma le conseguenze economiche possono diventare profonde: nel contesto di un mercato unificato a dimensione continentale, la concorrenza fiscale tra gli stati rappresenta un dato di fatto irrefutabile; andrebbe quindi gestita in chiave di marketing, come una qualsiasi concorrenza in essere sul libero mercato.
Se abito nelle vicinanze del confine, diventa naturale, agevole e conveniente acquistare la benzina nel paese dove il carburante costa meno; e per l’appunto il prezzo della benzina è determinato, per l’essenziale, dal carico fiscale che vi è stato spalmato. Questo a livello microeconomico.
A livello macroeconomico per le zone al confine con altri paesi (Austria, Slovenia, ma ormai persino Albania) la competitività fiscale diventa decisiva per la sopravvivenza dell’impresa; non è in gioco quindi soltanto il livello di retribuzione delle maestranze ma, soprattutto, il livello del prelievo fiscale. È sotto questo aspetto che l’immagine dell’Italia esce malconcia nel confronto, specie con quei paesi che possono giustificare il peso delle imposte con la qualità dei servizi.
Negli studi di marketing territoriale, l’indice di attrattività di un’area geografica esprime la risultanza di molteplici aspetti, quali, ad esempio, le condizioni delle vie di comunicazione, l’esistenza di una rete di imprese che agiscano da committenti/fornitori, la disponibilità di una rete informatica adeguata, il supporto di servizi comunali attenti alle esigenze delle imprese, dei costi delle forniture e, last ma certo not least, evidentemente, la competitività fiscale.
In buona sostanza anche l’imposizione fiscale è una leva di marketing, come le altre 4 storiche P, se un paese rinuncia a competere anche su questo piano con l’offerta di altri paesi si espone al depauperamento del tessuto produttivo costruito dalle precedenti generazioni a favore di altri paesi, più accorti.
Forse nei centri decisionali del nostro paese non si è preso abbastanza consapevolezza del fatto che, con l’unificazione dei mercati europei spostare l’attività al di là di una frontiera potrebbe rappresentare per l’impresa un vantaggio competitivo determinante, irrinunciabile.
Se la tassazione sulle aziende, ad esempio, in Austria (paese che, tra l’altro, dispone di una burocrazia più efficiente e di una forza lavoro di un superiore livello formativo) è inferiore a quella italiana l’azienda viene risucchiata nel paese fiscalmente meno oneroso e non a caso da tempo ha avviato una efficace “campagna acquisti”.
Non stiamo quindi parlando dei paesi del terzo o del quarto mondo, o di quelli ex-sovietici; si tratta di nazioni europee, inserite nel mercato unificato: Austria, Svizzera, Inghilterra, Belgio, Irlanda… Stati dove i servizi pubblici sono VERI servizi pubblici e il cittadino può constatare il perché paga le tasse e i benefici che ne ottiene.
Fuggono dal nostro paese le imprese, fuggono i giovani più preparati; quelle che rimangono vengono schiacciate dalle imposte prima ancora che dalla crisi, e poi alcune chiudono.
Per fare il punto sullo stato dell’arte, sul sentimento dei cittadini nei confronti dello Stato e sulle modalità con cui opera nell’ambito del prelievo fiscale forse sarebbe ora di realizzare una seria indagine motivazionale sulle associazioni spontanee alla parola “Equitalia”, “Agenzia delle Riscossioni”, “Agenzia delle Entrate”, “Studi di Settore”, “Spesometro” fino al recente “Risparmiometro” ripartendo dagli studi di Katona sulla fiducia del cittadino e il clima sociale generato e consolidato misurando la distanza non solo fisica che separa le istituzioni dai cittadini. E c’è poi un ulteriore aspetto per il quale l’immagine dell’Italia è ancora più gravemente sofferente rispetto agli altri paesi europei, quello della corruzione diffusa che fa letteralmente volare la spesa pubblica. L’Italia si colloca attualmente al 53º posto nell’indice di corruzione mondiale “Corruption Perceptions Index 2018” che analizza l’ampiezza della corruzione in 180 nazioni (dalla meno corrotta, Danimarca, a quella più corrotta, Somalia). Negli ultimi anni la situazione è fortemente peggiorata per l’Italia che vede crescere la corruzione proprio negli apparati più delicati della PA, -8 punti nella graduatoria. Meglio di noi risultano la Namibia, il Rwanda e Cabo Verde.
Comunque l’andazzo della pressione fiscale sembra proseguire in senso contrario alla logica più elementare perché non viene considerata come una leva di marketing, e non solo in ambito micro-economico. Una modesta proposta (qualcuno giudicherà superficiale e semplicistica): proviamo ad ascoltare direttamente gli imprenditori senza il filtro della politica e forse, come affermò Leonardo da Vinci, capiremo che “la semplicità è la più grande sofisticatezza”