Se esistono migliaia di libri che documentano l’applicazione degli strumenti del marketing al fine di promuovere la vendita di prodotti ai target più affluenti, persino nelle aree del pianeta più povere, latita invece la manualistica di marketing per promuovere l’uso di prodotti destinati alle popolazioni diseredate, ai soggetti marginali, alle fasce più vulnerabili.
Precisiamo che non stiamo parlando del marketing della raccolta di fondi delle organizzazioni umanitarie che si posizionano sul “senso di colpa”, ma che di fatto operano come vere multinazionali, e quindi pensano in primo luogo alla sopravvivenza della struttura e agli stipendi dei dipendenti. Non a caso, vista la globalità del proprio business, la loro denominazione è prevalentemente in lingua inglese.
Parliamo invece della promozione di tutti quei prodotti che possono migliorare le condizioni di vita delle popolazioni più povere del pianeta.
Tanti programmi di aiuto alle popolazioni bisognose si sono rivelati dei clamorosi flop perché partono dal principio che quando un prodotto, magari salvavita, viene reso disponibile gratuitamente, sarà rapidamente e estensivamente adottato. Spesso questo non si verifica perché non c’è garanzia che il prodotto venga adottato come sperato; da qui nasce la necessità dell’applicazione di un processo di marketing e di una strategia di diffusione del prodotto salvavita. L’obiettivo in questo caso non è quello di regalare o vendere, magari a bassissimo prezzo, un prodotto di largo consumo alle popolazioni più marginali, ma offrire una prospettiva di un’esistenza migliore.
Gli economisti Karlan e Appel nel loro “More than good intention” citano, come esempio, l’offerta gratuita di una bustina di sali che permetterebbe al corpo di assorbire e trattenere i liquidi. Una terapia con questo prodotto (SRO), facilmente assumibile, permetterebbe di scongiurare la morte in conseguenza della disidratazione provocata dalla diarrea, di milioni di soggetti all’anno a livello planetario. Nonostante la gratuità del prodotto, proprio i soggetti più vulnerabili, soprattutto bambini, non hanno seguito questa terapia per la reidratazione. Buona parte della popolazione non ne era informata e un’altrettanto cospicua parte l’ha rifiutata culturalmente. Stesso discorso nel confronto delle campagne sull’impiego del preservativo nell’ottica della riduzione delle nascite.
In termini di marketing, la problematica è assolutamente chiara: si tratta di innalzare la notorietà del prodotto, abbattere le barriere socio culturali e spingerne all’utilizzo. Due tipici obiettivi conseguibili con una buona strategia di marketing e comunicazione.
Gli esperti di marketing potrebbero contribuire alla riduzione della povertà con un’offerta compatibile con i bisogni del target utilizzando in modo efficace ed efficiente le proprie competenze professionali. Si dovrebbe, come in un regolare processo di marketing, partire proprio da una ricerca sul campo che dia voce a chi non ha mai avuto voce.
Perché tutto questo non avviene? Si parte dalla presunzione di sapere che cosa davvero desiderino i beneficiari, evitando proprio di consultare la parte direttamente interessata e quindi non disporre di tutte quelle informazioni utili a definire una strategia di marketing.
Solitamente quando si parla di interventi nel sociale, sono altri in successione gerarchica – spesso distanti fisicamente e culturalmente – ad occuparsi e a decidere cosa è buono per il bisognoso (tipologie di alimenti, attrezzature, servizi, …) senza preoccuparsi se il bisognoso abbia realmente queste necessità o se le sue priorità siano ben altre.
I desiderata dovrebbero essere raccolti fin dall’inizio e non ex-post quando tutto è stato deciso e magari quando i risultati sono stati deludenti.
Ben 18mila sono i bambini che muoiono ogni giorno nel mondo per cause associate alla povertà, anche a fronte di giganteschi investimenti a pioggia in uomini e mezzi in ambito sociale, spesso a beneficio di chi aiuta e non di chi dovrebbe beneficiare dell’aiuto. C’è qualcosa che non torna a meno che…